Nell’indifferenza dei media, occupati in servizi-fotocopia sul Mottarone, filmati riciclati su Saman e rievocazioni di Vermicino, l’Italia ammaina la bandiera in Afghanistan. Ci ritiriamo dopo 20 anni di “missione di pace”, sinonimo politicamente corretto di guerra. D’appoggio, regolamentata, ma pur sempre guerra: abbiamo avuto 53 morti e 700 feriti. Non siamo, cioè, andati a distribuire merendine. E i talebani non ci tiravano caciotte. Ma il politicamente corretto imperava persino nelle motivazioni delle medaglie: quella data il 2 giugno scorso al caporalmaggiore Diego Massotti recita «per aver risposto al fuoco di un elemento ostile». Guai a dire nemico, o talebano! Dopo un fuoco micidiale di razzi anticarro e mitragliatrici il caporale «neutralizzava la minaccia». Guai a dire «eliminava» o «uccideva» anche se in vent’anni gli italiani ne hanno accoppati migliaia, di talebani. E così ci ritiriamo, dopo aver “non perso” una “non guerra”. Lo ha deciso nonno Biden, e quando il cacciatore torna a casa il cane lo segue. D’altra parte non abbiamo altre occasioni per usare il nostro esercito sul campo. Se non ci fossero queste missioni bisognerebbe inventarle, altrimenti i nostri fanti (che ci costano uno sproposito, con tutto l’ambaradan a stellette) resterebbero qui a poltrire nelle caserme come i tanti statali demansionati degli enti inutili. Andiamo in posti lontani a difendere a pagamento interessi altrui come le compagnie di ventura medioevali. Come i corpi di spedizione Australiano e Neozelandese che lasciarono 11mila morti sulla spiaggia di Gallipoli, chiamati dagli inglesi nel 1915. Noi in Afghanistan abbiamo perso ‘solo’ 53 uomini in vent’anni. Un affare.
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