C’è un ragazzo di quattordici anni che non riesce a dormire. Tutt’attorno è notte e silenzio, ma è come se avesse il diavolo in corpo. Le unghie piantate nelle cosce, negli stinchi, nella carne dei piedi nell’inutile tentativo di estirpare quel prurito che non passa mai. La pelle è coperta di vesciche per le quali non c’è cura né rimedio.
È l’amianto, ad averle aperte dentro di lui, che ancora ragazzino ha avuto la fortuna di trovare un posto di lavoro all’Eternit, a infilzare otto ore al giorno le balle di materiale che in treno arrivano direttamente dalla cava di Balangero. Il forcone in una mano, i sandali nei piedi, un paio di pantaloni corti. E basta.
Si lavorava così, nello stabilimento di Cavagnolo. Ma erano gli anni Sessanta, e la sicurezza in fabbrica era un concetto al di là da venire un po’ dappertutto. E poi vuoi mettere? Otto ore di lavoro e basta, liberi di tornare nei campi che da sempre sono stati la ricchezza di questa terra.
Che fortunati, gli operai di via Cristoforo Colombo. La pensavano così più o meno tutti, conferma Beppe Valesio, residente e autore del toccante libro “La nuvola di polvere-Cronache dalla Saca Eternit di Cavagnolo”.
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