«Il mio vivissimo auspicio, che spero sia ascoltato anche dalla dirigenza della Fiat, è che questo grave episodio possa essere superato, nell’attesa di una conclusiva definizione del conflitto in sede giudiziaria, e in modo da creare le condizioni per un confronto pacato e serio su questioni di grande rilievo come quelle del futuro dell’attività della maggiore azienda manufatturiera italiana e dell’evoluzione delle relazioni industriali nel contesto di una aspra competizione sul mercato globale ». È quanto si è augurato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nella risposta alla lettera inviatagli dai tre operai di Melfi Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, per i quali il magistrato del lavoro ha disposto il reintegro in azienda dopo il licenziamento. Un reintegro difficile, dal momento che la Fiat ha concesso ai tre di entrare nello stabilimento, garantendo lo stipendio, ma non di poter lavorare. « Signor presidente – hanno scritto Barozzino, Lamorte e Pignatelli in una lunga lettera per chiedere un suo intervento per richiamare la Fiat «al rispetto delle leggi» – per sentirci uomini e non parassiti di questa società vogliamo guadagnarci il pane come ogni padre di famiglia e non percepire la retribuzione senza lavorare». Un appello in cui hanno ribadito di non aver attuato il blocco della produzione, quella notte del 6 luglio e in cui hanno sostenuto la «reiterazione della condotta antisindacale» dell’azienda nei confronti della Fiom-Cgil – a cui sono iscritti -, una condotta che «mortifica e umilia la dignità». Il capo dello Stato ha capito il loro disagio: «Comprendo molto bene come consideriate lesivo della vostra dignità “percepire la retribuzione senza lavorar e” » , esprimendo « profondo rammarico per la tensione creatasi in relazione ai licenziamenti che vi hanno colpito e, successivamente, alla mancata vostra reintegrazione nel posto di lavoro ». Ora, ha spiegato il presidente, bisogna attendere che l’autorità giudiziaria e ad «essa non posso che rimettermi anch’io, proprio per rispetto di quelle regole dello Stato di diritto a cui voi vi richiamate». In attesa di conoscere la decisione del giudice sulla denuncia penale presentata lunedì contro l’azienda per « inosservanza » del decreto stesso che invece la Fiat sostiene di aver «doverosamente eseguito», i tre operai ieri non sono entrati nello stabilimento Sata di Melfi, mentre si è acuito lo scontro tra i sindacati. «C’è una sentenza esecutiva – ha dichiarato Susanna Camusso della Cgil – della procura di Potenza. La Fiat deve rispettarla». «Chi non rispetta le regole – ha replicato Raffaele Bonanni – è la Fiom». Per il numero uno della Cisl, il Lingotto «non deve perdersi in rincorse deleterie per noi, ma anche per l’a zien da stessa e l’opinione pubblica, che deve avere al centro l’importanza di un investimento da 20 miliardi di euro in sei anni, con una delocalizzazione al rovescio ». Anche il governo ha fatto sentire la propria voce. «Le sentenze vanno rispettate – ha detto il ministro Altero Matteoli – anche quando non ci fanno piacere. Se il nostro è uno Stato di diritto, non lo può essere a fasi alterne». E per il sottosegretario allo Sviluppo economico, Stefano Saglia, Fiat dovrebbe «applicare la sentenza e continuare a rimanere dalla parte della ragione». E a chi accusa l’esecutivo di eccessivo lassismo, ha replicato: «Il governo non è stato assente. Il problema è che con questa vicenda si stanno riscrivendo le regole delle relazioni industriali del nostro paese». «Qui – ha aggiunto – si sta andando oltre. Credo che la Fiat non debba mettere in imbarazzo quella parte importante del sindacato che ha condiviso questo percorso con sacrifici e difficoltà».Mia Zalica